domenica 27 agosto 2017

La lettera d'addio di Cesare Pavese alla sua Pierina prima del suicidio

Lo scrittore venne ritrovato morto suicida il 27 Agosto del 1950, dopo aver ingerito un quantitativo di sonnifero che gli fu fatale. Solo due mesi prima fu vincitore del celebre "Premio Strega". Molti ritengono che la sua morte sia stata la conseguenza di continue delusioni e difficoltà che l'autore non si sentiva più in grado di subire. A mio parere, come si evince dai suoi scritti, proprio questi ultimi, la sua "cenere" -  come da lui stesso definiti -  non sono altro che una continua richiesta d'aiuto, la quale però lui stesso non accetterebbe mai. Lui è un uomo eccessivamente introspettivo, malinconico, immune ad ogni gioia della vita, ad ogni reazione positiva, deciso e sicuro di vivere nella sua sofferenza, come se in nessun altro luogo si sentisse vivo. La sofferenza può essere affascinante, crea un mondo da cui è difficile uscirne, che ti ingloba, ti serra con delle catene. Catene, però, che è proprio l'uomo sofferente a stringere e a serrare completamente, fino a non volerne più uscire. Questo è stato l'atto estremo di un uomo che non si sentiva più adatto alla vita. 





“Cara Pierina, 
Ma tu, per quanto inaridita e quasi cinica, non sei alla fine della candela come me. Tu sei giovane, incredibilmente giovane, sei quello che ero io a vent’otto anni quando, risoluto di uccidermi per non so che delusione, non lo feci – ero curioso dell’indomani, curioso di me stesso – la vita mi era parsa orribile ma trovavo ancora interessante me stesso. Ora è l’inverso : so che la vita è stupenda ma che io ne sono tagliato fuori, per merito tutto mio, e che questa è una futile tragedia, come avere il diabete o il cancro dei fumatori. Posso dirti, amore, che non mi sono mai svegliato con una donna mia al fianco, che chi ho amato non mi ha mai preso sul serio, e che ignoro lo sguardo di riconoscenza che una donna rivolge a un uomo ? E ricordarti che, per via del lavoro che ho fatto, ho avuto i nervi sempre tesi e la fantasia pronta e decisa, e il gusto delle confidenze altrui? E che sono al mondo da quarantadue anni ? Non si può bruciare la candela dalle due parti – nel mio caso l’ho bruciata tutta da una parte sola e la cenere sono i libri che ho scritto. Tutto questo te lo dico non per impietosirti – so che cosa vale la pietà, in questi casi – ma per chiarezza, perchè tu non creda che quando avevo il broncio lo facessi per sport o per rendermi interessante. Sono ormai aldilà della politica. L’amore è come la grazia di Dio – l’astuzia non serve. Quanto a me, ti voglio bene, Pierina, ti voglio un falò di bene. Chiamiamolo l’ultimo guizzo della candela. Non so se ci vedremo ancora. Io lo vorrei – in fondo non voglio che questo – ma mi chiedo sovente che cosa ti consiglierei se fossi tuo fratello. Purtroppo non lo sono. Amore.”
Cesare



mercoledì 26 luglio 2017

Recensione: "Lettere a Milena", Franz Kafka

Titolo: Lettere a Milena
Autore: Franz Kafka
Prezzo: €10,00
Pagine: 242
Edizione: Oscar Mondadori
Consigliato:

A partire dall'Aprile del 1920, Kafka cominciò a scrivere le prime lettere a Milena Jesenskà Pollak, una traduttrice ceca che aveva conosciuto durante un suo soggiorno a Praga. Sebbene vi siano state altre donne nella vita dell'autore, nessuna lo aveva mai colpito così tanto nel profondo. E' da rendere nota la personalità inquieta di Kafka, di un uomo costretto all'ascesi non per sua vocazione personale o per una sorta di eroismo nei confronti dell'etica, ma semplicemente per la sua incapacità di compiere delle scelte o scendere a compromessi. Tale amore, il quale appare di per sé già complicato, sebbene profondo, sembrava destinato a non durare.














« E forse non è vero amore se dico che tu mi sei la cosa più cara; amore è il fatto che tu sei per me il coltello col quale frugo dentro me stesso. »
Se ricordate il Kafka degli scritti più famosi (giusto per citarne alcuni "Il processo", "La metamorfosi", "Il castello"), in questo libro resterete probabilmente sorpresi. Negli scritti precedenti ciò che non emerge è la vera essenza dell'autore, la sua vera vita, il modo di affrontare la sua di vita. In "Lettere a Milena" viene messa a nudo la figura di Kafka, vengono raccolti i suoi tormenti, i suoi costanti dubbi, la sua profonda debolezza caratteriale: bisogna tener conto del timore dell'autore di apparire agli occhi altrui una persona ripugnante, sia mentalmente che fisicamente. Timore che apparentemente non si mostrava evidente, tant'è che chi lo descrive afferma di aver conosciuto un uomo tranquillo, di cui si intuiva subito una fine intelligenza e umorismo. Queste apparenze, però, vengono smentite in questa corrispondenza, la quale esprime la profonda inquietudine dell'autore e la consapevolezza di dover conquistare con fatica anche le cose più semplici.
Tutto cominciò nel 1919 quando Milena si imbatté in un breve racconto dello scrittore e gli scrisse per ottenere l'autorizzazione alla traduzione dal tedesco al ceco. Da quel momento cominciò una intensa corrispondenza tra i due. Si incontrarono soltanto poche volte fino a quando Kafka pose fine alla loro relazione, anche a causa del fatto che Milena non voleva lasciare il marito. A riprova del loro rapporto Kafka lasciò a Milena i propri diari, inviandole anche le lettere che scrisse per suo padre, che verranno poi raccolte e pubblicate successivamente. 


Quando dico che in queste lettere emerge tutta l'anima di Kafka credo di non esagerare. Ho colto quale fosse il suo stato d'animo, il quale probabilmente lo ha accompagnato per tutta la vita, in queste precise parole: 
" ..non ho mai un momento di calma, che nulla mi è donato e tutto deve essere acquistato, non solo il presente e l'avvenire, ma anche il passato; ciò che a ogni uomo è dato, anche questo deve essere acquistato ed è forse la fatica più grave; se la terra gira a destra - non so se lo faccia - io dovrei girare a sinistra per recuperare il passato. Non ho però la minima energia per tutti questi obblighi, non posso portare il mondo sulle spalle, vi reggo a malapena il cappotto d'inverno.
[...]
Io non posso per mia iniziativa percorrere la via che vorrei, anzi non posso nemmeno voler percorrerla. Posso soltanto star quieto, non posso volere nient'altro, non voglio neanche altro."
Avete presente quella consapevolezza di non riuscire mai a vivere tutto ciò che accade nella propria vita con un briciolo di leggerezza? E non perché non si voglia, ma perché si sente di non poterlo fare. 
Quando si è vissuto per tutta la vita sentendo il peso di ogni esperienza, di ogni parola, di ogni evento, positivo o negativo che sia, sarà ben difficile non pensare unicamente a difendersi dai colpi della vita stessa. E' come essere su un sentiero lunghissimo, si sta camminando semplicemente, contemplando il paesaggio circostante, sentendosi pieni, non si sa di cosa, forse di una sorta di tranquillità data da quel cielo azzurro che ci sovrasta, da quel vento leggero che accarezza, da quell'erba così verde posta ai lati del sentiero. Pensate di essere in questo stato di assoluta pienezza e serenità. Ad un certo punto, però, il cielo comincia a coprirsi di nuvoloni grigio scuro, il vento comincia a farsi sempre più forte, quasi come se la carezza che sembrava stesse donandoci un momento prima diventasse tutta ad un tratto un forte schiaffo; quella tempesta non permette che il cammino continui in modo beato come prima, perciò non basta più camminare, bisogna difendersi. Inizialmente è come sentirsi spiazzati, si cerca di capire come sia stato possibile questo cambio così rapido e violento, ma ciò che d'istinto l'uomo tende a fare è coprirsi il viso, di coprire gli occhi che fino a poco prima vedevano tutto quel bello, quello stesso bello che adesso lo costringe a tenerli chiusi. Si cerca di mantenersi in piedi e di continuare a camminare. A questo punto, possono accadere due cose: si può lottare con tutte le proprie forze, ponendo un piede davanti all'altro e continuare camminare nonostante la tempesta, mantenendosi aggrappati all'idea che quel bello tornerà, basterà solo superare la tempesta oppure ci si può abbandonare al flusso e cadere a terra, con il vento che man mano comincerà a ricoprirci di terra, scavando un fosso di cui si diventerà i prigionieri, e l'erba che precedentemente ricopriva i lati del sentiero comincerà a posarsi anche su quella terra cui si giace al di sotto, e tutto apparentemente sembrerà normale, nessuno vedrà che lì sotto ci sarà qualcuno. Quando la tempesta sarà finita, e tutto si placherà, nessuno si accorgerà che sotto quell'erba c'è qualcuno che ha permesso che il flusso lo trascinasse via, e che di lì in avanti porterà sempre gli schiaffi del vento sulla pelle, terrà gli occhi chiusi per paura che la tempesta lo aggredisca di nuovo, si ricoprirà di erba come difesa dal mondo intero, facendo finta che questo malessere in realtà non esista. Badate bene, però, che coloro rimasti con gli occhi ben aperti, e che avranno visto davvero e superato quella tempesta, sapranno benissimo che non sarà così. Tutti, in fondo, nascondiamo delle ferite che nessuno dovrebbe riaprire per soddisfare unicamente la sua curiosità o per far sì che le difese che ciascuno di noi costruite per tutta la vita cadano miseramente. Probabilmente anche Kafka si sarà sentito in questo modo, con una vita passata ad attutire i colpi di quella prima caduta, a coprirsi d'erba per non tradire le apparenze, a percorrere con timore quel sentiero con la costante sensazione di camminare nella quiete ma di essere travolto improvvisamente dalla tempesta che riduce la tua forza, che ti invita ad arrenderti ad essa, che fa volar via col vento le tue difese, la tua serenità. Molto spesso si cerca di colmare queste mancanze con l'amore: si cerca negli altri l'amore che non si è riusciti ad avere per se stessi, con tutte le insicurezze, i timori, ma con il desiderio di provare ad avere qualcuno accanto. Kafka si "affida" a Milena per curare il suo spirito, stanco e compromesso, sperando che possa diventare il suo porto sicuro, la sua ancora di salvezza, anche se sa benissimo che ciò non è possibile, ma la sua consapevolezza si contrappone al costante desiderio di averla con sé. A volte ci innamoriamo di quella persona perché non avremmo mai pensato che lei potesse innamorarsi di noi; noi che sappiamo tutto quel caos che abbiamo in testa, che sappiamo il malessere costante che preme sullo stomaco, che rende il cuore un po' più pesante e difficile da conquistare, però a quella persona piacciamo comunque, e non ci sembra possibile. Milena era legata da un affetto sincero a quell'uomo così malinconico ma così altrettanto apprezzabile, sebbene non sia mai riuscita a lasciare suo marito per lui. Kafka, che forse pensava a Milena come ad una stella luminosa, era anche lei finita in quel fosso e faceva il possibile per continuare a rimanere in piedi, o forse sapeva che era così, ma in questi casi è più facile ritirarsi ognuno nel proprio rifugio piuttosto che rifugiarsi in due nello stesso. La consapevolezza spaventa, mettere nelle proprie mani quelle di un'altra persona è un vero e proprio impegno che chi non è riuscito a tenersi stretta la propria non riesce a prendersi. 


« Io, bestia silvestre, non stavo nella selva ma giacevo non so dove, in un fosso lurido (lurido soltanto per la mia presenza) ed ecco che ti vidi fuori all'aperto, la cosa più meravigliosa che avessi mai visto, dimenticai tutto, mi dimenticai interamente, mi alzai, mi avvicinai, timido bensì in quella nuova eppure natía libertà, mi avvicinai dunque, arrivai fino a te, tu fosti tanto buona, mi accovacciai presso a te come se ciò mi fosse lecito, posai il viso nella tua mano, ero tanto felice, tanto orgoglioso, tanto libero, tanto potente, tanto a casa mia, sempre così: tanto a casa mia - ma in fondo ero sempre la bestia, appartenevo pur sempre alla selva, vivevo all'aperto soltanto per grazia tua e senza saperlo leggevo la mia sorte nei tuoi occhi. Non poteva durare. Anche accarezzandomi con la mano più generosa dovevi notare certe particolarità allusive alla selva, a questa origine, a questa vera patria, e vennero le necessarie ripetute discussioni dell'angoscia che torturavano me (e te, ma innocentemente) fino al nervo scoperto, e sempre più crebbe davanti a me la visione dell'immondo tormento, del continuo ostacolo che ero per te.
[...]
Ripensai chi ero, nei tuoi occhi non lessi più alcuna allusione, provai il terrore in sogno (di vivere in qualche luogo che non era il mio, come se fossi a casa mia) questo terrore lo provai realmente, dovetti ritornare nel buio, non sopportavo il sole, ero disperato veramente come una bestia smarrita, incominciai a correre a più non posso e sempre col pensiero: "Se potessi portarla con me!" e col contropensiero: "Esiste il buio dove è lei?".
Tu chiedi come io viva: ecco, così vivo.»


A volte si lascia andare qualcuno per paura che lo si porti nel proprio fosso e lo si rovini, senza capire che tutti, in un modo o in un altro, siamo accucciati in quel nostro rifugio con la speranza che qualcuno cominci a scavare fino a trovarci. Se ciò accade, però, è possibile anche che la meraviglia di esser trovato si trasformi ben presto nella paura di uscire allo scoperto, di dover lottare per resistere alla tempesta, poiché ormai ci si era abituati a stare nel proprio cantuccio in una apparente tranquillità, abituati nel proprio malessere. Non si può aiutare chi non vuol essere aiutato. Spesso la paura supera anche il coraggio, ma vivere nell'abisso non farà altro che assorbirvi fino a farvi scomparire completamente. Alzate la testa, aprite gli occhi davanti alla tempesta, fatevi schiaffeggiare dal vento, ma continuate a camminare. Quando la tempesta sarà finita, non sarete più quelli che vi sono entrati. Sarete più forti. Stare con qualcuno non significherà aver bisogno di lui per colmare dei vuoti o trascinarlo nel proprio dolore come unica forma per tener vivo quel rapporto. L'amore non è bisogno, è desiderio di star con l'altro perché si sente che renderà la propria vita un po' migliore, ma non perché ne riempirà i vuoti. Starete con lui perché avrete affrontato la tempesta da soli, con le vostre forze, e potrete permettervi di aprire gli occhi per guardare di nuovo quel bello che prima vi era stato negato e che non avevate più il coraggio di osservare, di cui forse neppure vi accorgevate. Affrontare in due la tempesta significa rendere più facile il percorso: se uno cade, l'altro potrà riprendervi. Ma affrontarla primariamente da soli significa che avrete la forza di rialzarsi da sé e prendere la mano di chi amate per poter semplicemente camminare, sotto il sole o la tempesta, su quel percorso sentendosi nuovamente pieni, di una pienezza chiamata "felicità".


martedì 13 giugno 2017

Fernando Pessoa, L'amore quando si rivela

Il 13 Giugno 1888 nasceva a Lisbona il celebre poeta Fernando Pessoa. E' considerato uno dei maggiori poeti in lingua portoghese e, insieme a Pablo Neruda, dei più rappresentativi del XX secolo. Ne ricordiamo una delle poesie più belle:

L'amore, quando si rivela, 
Non si sa rivelare. 
Sa bene guardare lei, 
Ma non le sa parlare.
Chi vuol dire quel che sente 
Non sa quel che deve dire. 
Parla: sembra mentire... 
Tace: sembra dimenticare...
Ah, ma se lei indovinasse, 
Se potesse udire lo sguardo, 
E se uno sguardo le bastasse 
Per sapere che la sto amando!
Ma chi sente molto, tace; 
Chi vuol dire quello che sente 
Resta senz'anima né parola, 
Resta solo, completamente!
Ma se questo potesse raccontarle 
Quel che non oso raccontarle, 
Non dovrò più parlarle, 
Perché le sto parlando...

domenica 26 marzo 2017

Poesia: "Te", Erich Fried

"Te
lasciarti essere te
tutta intera
Vedere
che tu sei tu solo
se sei
tutto ciò che sei
la tenerezza
e la furia
quel che vuole sottrarsi
e quel che vuole aderire
Chi ama solo una metà
non ti ama a metà
ma per nulla
ti vuole ritagliare a misura
amputare
mutilare
Lasciarti essere te
è difficile o facile?
Non dipende da quanta
intenzione e saggezza
ma da quanto amore e quanta
aperta nostalgia di tutto-
di tutto
quel che tu sei
Del calore
e del freddo
della bontà
e della protervia
della tua volontà
e irritazione
di ogni tuo gesto
della tua ritrosia
incostanza
costanza
Allora
questo
lasciarti essere te
non è forse
così difficile."

Poesia: "E se non puoi la vita che desideri", Constantinos Kavafis

"E se non puoi la vita che desideri
cerca almeno questo
per quanto sta in te: non sciuparla
nel troppo commercio con la gente
con troppe parole in un viavai frenetico.
Non sciuparla portandola in giro
in balìa del quotidiano
gioco balordo degli incontri
e degli inviti,
fino a farne una stucchevole estranea."

Poesia: "Sei incancellabile tu", Charles Bukowski

“Succede che una mattina ti svegli e vedi che fuori non piove più e allora ti chiedi – beh? Che è successo? Ecco, quella mattina successe a me che da tanto tempo non amavo, ma non per chissà quale motivo, non amavo e manco io sapevo il motivo preciso, ma forse sì che lo sapevo: che senso poteva avere per me l’amare se non amare che te? Quella mattina io avevo una gran voglia di dirti – ti amo -, almeno credo. Quanto mi manchi amore mio. Certo, io lo sapevo già dentro di me di questa cosa che mi manchi ma l’ho capita bene solo quando fuori ha smesso di piovere e a me mi giocava il cuore. È che prima avevo la scusa per non vedere il sole, pioveva, mica era colpa mia, ma le nuvole ora sono andate via portandosi dietro tutte le scuse. Ok, tu non ci sei, ok, ma va bene, va bene anche se va male, va bene perché io ti amo lo stesso.


C’è come un diario che ho chiuso nel petto, sento che devo tirarlo fuori e devo farlo senza schemi se non gli schemi che mi porto nel cuore.

Ah! Mannaggia mannaggia, mannaggia al cuore che non sa far calcoli ma che pure spesso sbaglia i conti.
Ma io non ero riuscito a dirti quel ti amo.
Era una primavera quando andasti via, lo ricordi? Io cercavo di farmi forza, la vita andava avanti sentivo dirmi da tutti.
Quando te ne sei andata io mi sono un po’ rimbecillito.
Mi persi, diciamoci la verità, perdendoti io mi persi. E tu? Ah! No scusa, non volevo chiederti se anche tu ci sei rimasta male, era un e tu come stai? Roba del genere insomma, un e tu cosa fai ora? Che stai facendo adesso, adesso è in questo momento, che stai facendo in questo momento? Non mi interessa cosa stai facendo nella vita, io non ci sono più nella tua vita, cosa vuoi che mi importi?
Sicuramente starai facendo tante cose belle, bellissime, ma a me importa adesso, adesso adesso mi importa, adesso in questo momento. Io adesso ti sto pensando facendomi del male. Io vorrei non pensarti ed averti invece qui, qui vicino a me.
Ma non ci sei. Non voglio pensarti ma non lasciarmi solo, non andare via anche dai miei sogni.
Tu dolce ferita mi tagli il cuore, ma io sorrido sai? Non mi fa male questo maledetto male. Sorrido perché dentro ci sei te e ti vedo, almeno posso vederti. Ti vedo pure che dai un bacio a quello lì e questo un po' a dirti il vero mi fa arrabbiare.
Ma tu non lasciarmi lo stesso, tienimi con te pure se sono arrabbiato.
Tienimi con te. Non mi fa male la ferita al cuore, no, non mi fa male, sei tu che non ci sei, non andare via oltre.
A volte mi sento tanto forte da poterti dire che non esisti senza di me.
Ma non è vero sai? È che ci provo ad andare avanti, bisogna comunque provarci o almeno provo a convincermi che bisogna provarci.
Fossi riuscito a dirti ti amo oggi me ne fregherei della pioggia che smette o che non smette, facesse cosa cavolo vuole la pioggia, fossi riuscito a dirti ti amo io ora non sarei qui a pensare a dimenticarti senza cancellarti.
Sei incancellabile tu.
Sei come quelle macchie di inchiostro sul taschino della camicia, solo che sulla camicia ci puoi mettere una giacca, un maglioncino, ma su di te cosa ci posso mettere?”

martedì 14 marzo 2017

Recensione: "Lettera al padre", Franz Kafka

Titolo: Lettera al padre
Autore: Franz Kafka
Prezzo: €9,00
Pagine: 122
Edizione:  Universale economica Feltrinelli
Consigliato:


"Carissimo padre, di recente mi hai domandato perché mai sostengo di aver paura di te."
Scritta nel 1919 e mai consegnata al destinatario, "Lettera al padre" ripercorre la storia di un rapporto complicato tra un padre troppo forte e un figlio troppo debole. Una lotta impari. Una figura a lungo temuta e fuggita, un padre distante, inaccessibile, che non hai mai compreso suo figlio, le sue paure, i suoi voleri, il suo "io". Una lettera disperata che non solo evidenzia l'influenza di una forte personalità contro un animo particolarmente sensibile, ma che diviene parallelamente un bisogno di riaffermazione di sé dinnanzi a una temuta e terribile negazione.



"Ad ogni modo eravamo così diversi e, in questa diversità, così pericolosi l'uno per l'altro, che se si fosse cercato di prevedere come il bambino che lentamente cresceva e tu, l'uomo maturo, si sarebbero comportati l'uno nei confronti dell'altro, si sarebbe potuto supporre che tu mi avresti semplicemente calpestato, senza che di me rimanesse niente. E invece non è accaduto, la vita non si può prevedere, ma forse quel che è accaduto è anche peggio.Tale confessione da parte dell'autore inizia affrontando quel che sarà uno dei temi fondamentali, la paura nei confronti del padre, la stessa che lo porterà ad una sorta di chiarimento interiore di quelle che sono le sue emozioni contrastanti ancor prima che questo suo dialogo abbia inizio. Rievocando i ricordi di infanzia, Kafka narra della sua "misura di tutte le cose", come da lui descritta, quella figura per lui così importante ma, al tempo stesso, così irraggiungibile. Dai ricordi narrati emerge tutto il suo rammarico, la sua vulnerabilità e l'incapacità di non essersi mai saputo opporre, anche in situazioni in cui avrebbe avuto tutte le ragioni per farlo, ad un padre troppo austero, che lo ha forgiato non solo emotivamente, ma anche nelle sue aspirazioni divenute ormai limiti e paure. Per l'adulto Franz anche semplici e abituali riflessioni inerenti all'ambito lavorativo o alla sfera sentimentale divengono motivo di veri e propri conflitti interiori, e vi sono esplicite accuse a ciò che è stata la sua esperienza nel rapporto padre-figlio, del "cattivo esempio" che ha ricevuto, alla continua freddezza subita. Ne derivano considerazioni alquanto pesanti che mirano ad evidenziare le continue violenze psicologiche e l'incoerenza pressante del padre, alla cui base non vi è altro che il desiderio di mostrare la differenza tra il temperamento e la fermezza del padre contro la sua debolezza, sia fisica che psicologica. A testimonianza di ciò , lo stesso Kafka afferma: "Già era sufficiente a schiacciarmi la tua sola immagine fisica. Ricordo, ad esempio, quando ci spogliavamo nella stessa cabina. Io magro, debole, sottile, tu forte, alto, imponente. Anche dentro la cabina mi facevo pena, non solo davanti a te, ma davanti al mondo intero, perché tu eri per me misura di tutte le cose". Di qui emerge il desiderio di avvicinarsi alla sua colonna portante, al suo punto fisso, alla sua misura di tutto e l'incapacità nel riuscirci. Nonostante vi sia questo profondo desiderio, il suo atteggiamento non sfocia che nell'indecisione, in un continuo colpevolizzare se stesso, nel sentirsi meno di lui e conseguentemente di tutti e tutto, una nullità se confrontato a suo padre e quindi, di conseguenza, al mondo intero. Sebbene Franz ripeta più volte che la colpa di tutto ciò, anche del suo modo di essere, non sia del padre (non completamente, almeno), dalle parole scritte emerge questo grande peso che ha sempre portato nei suoi confronti, poiché sottolinea come la colpa in fin dei conti non sia neppure sua. Lo descrive anche come un padre sempre dedito al lavoro, che ha permesso comunque ai suoi figli di studiare, nonostante in alcuni casi non ne abbia condiviso le scelte future; lo stesso Franz, infatti, descrive anche il momento in cui intraprende la sua carriera di scrittore e la mancata stima del padre nel fare ciò, facendo trasparire la scarsa convinzione di credere che il figlio avesse un talento del genere. Se questo aspetto non fa altro che peggiorare la figura del padre, bisogna anche considerare il contesto reale in cui tale scritto è inserito: effettivamente Kafka non ha mai avuto, quantomeno all'inizio, stima e successo come scrittore, solo Max Brod (giornalista, scrittore e compositore dell'epoca, è famoso soprattutto per esser stato biografo proprio di Kafka) sembrava credere nelle sue capacità e nel successo che avrebbero avuto i suoi scritti. Come tutti i padri, non stupisce poi più di tanto il desiderio di spingerlo a perseguire una strada che gli avrebbe garantito maggiore stabilità, dopotutto accade ancora oggi. Quale genitore non vorrebbe che il figlio avesse un lavoro stabile che gli permetta di costruirsi un futuro, una famiglia, una propria indipendenza? Un passo del genere può esser ricondotto anche nella semplice scelta dell'università da intraprendere: sarà capitato a tutti di voler perseguire un corso di studi che non garantisce, purtroppo, una stabilità lavorativa futura; maggiori possibilità possono essere offerte da facoltà di stampo tecnico-scientifico o giuridiche, ma non tutti son portati o preferiscono tali discipline. Spesso, tutt'oggi, si verificano ancora casi in cui i genitori tendono a sostituirsi ai figli, alle loro scelte, forzandole e facendo pesare la loro incapacità di portarle a termine. Perciò, nonostante la figura paterna di Kafka non abbia certo dei modi invidiabili nel proferire le idee e considerazioni nei confronti dei figli, non ha comunque impedito che intraprendessero strade da loro volute. Magari ne ha sempre sottolineato l'inutilità, la mancanza di talento, ma a questo punto "il testimone" non può che essere trasferito al ruolo di figlio, il quale può scegliere se effettivamente tener conto di quelle che sono le considerazioni negative del padre e comportarsi di conseguenza. Nonostante l'educazione fredda e austera, Franz ha sempre potuto fare delle scelte. Ha scelto di non opporsi mai, di non allontanarsi neppure da una figura per lui così negativa, sebbene importante.E' ormai chiaro che Herman Kafka abbia esercitato una notevole influenza sul figlio, ma proprio come da quest'ultimo affermato non è la causa principale del suo essere così sensibile. Nonostante, infatti, gli rivolga una serie di accuse, alla fine non lo incolpa mai. Anche in questo caso emerge una personalità fragile, vulnerabile a cui un tipo di educazione austera non ha certo favorito.Non che Franz sia vissuto privo di affetto, vi era pur sempre la figura della madre che cercava di risanare quanto possibile le sue ferite ma, come la maggior parte delle madri di famiglia dell'epoca, vi era una devozione completa alla figura del marito che spesso non permetteva di contrastare i suoi modi di fare. Ogni opera necessita di essere contestualizzata, bisogna sempre tener conto del tipo di società vigente e, naturalmente, delle complicazioni da esse derivanti per coloro che possedevano una personalità più fragile, più sensibile.
Non deve essere certamente facile crescere con dei punti di riferimento che si rivelano solo il crollo di tutte le fondamenta. Ciascuno ha bisogno di sapere di poter contare su qualcuno e i nostri occhi, automaticamente, si dirigono verso la famiglia. Sono loro che ci mettono al mondo e ci vedono crescere, spesso con fatica; li consideriamo, o vorremmo considerarli, il nostro rifugio, il nostro porto sicuro e può essere molto difficile costruirsi un proprio sé quando proprio quest'aspetto viene a mancare. Credo, però, che ognuno possa scegliere da sé chi essere. Qualsiasi esperienza vissuta, soprattutto quelle negative, permettono di scegliere comunque come reagire ed interiorizzarle. Abbandonarsi ad esse non permette mai di uscire da quel cerchio, di non varcare mai quella linea. Ma, dopotutto, c'è davvero qualcuno che ci dica "tu non puoi"? E' una voce che proviene da se stessi nonostante se ne attribuisca la colpa ad una seconda persona: siamo noi il vero limite di e per noi stessi. Sicuramente le esperienze che abbiamo vissuto, che ci abbiano forgiato in maniera volontaria o meno, hanno una notevole influenza su ciò che determina il nostro modo di pensare, agire, essere, ma ciò non costituisce un cambiamento definitivo. Noi possiamo scegliere chi essere, cosa cambiare, cosa accettare di noi stessi. Le paure possono essere affrontate, i limiti superati.. basta solo credere in se stessi. Se nessuno ci stima, neppure le persone che sono più importanti per noi, sicuramente ciò farà star male, ci potrà far credere di non valere nulla ma ciò non accadrà se i primi ad aver stima di noi stessi saremo proprio.. noi. Molti sottovalutano l'importanza di credere nel proprio io, nei propri valori, nelle proprie idee, nelle proprie intenzioni che ci portano ad agire in un determinato modo. Anche un padre austero che non ha saputo comprendere le nostre fragilità, che non ha saputo curarle e forse non ha fatto altro che alimentarle, non necessariamente determina un uomo adulto inutile e non necessariamente si comporterà con il prossimo, magari con un suo stesso figlio, conseguentemente ai modi ricevuti dal proprio padre. Ognuno può plasmare se stesso partendo semplicemente da sé. Deve far tesoro delle esperienze vissute, ma non basarsi unicamente su di esse. Quelle esperienze sono la nostra base di lavoro, ciò da cui trarre gli elementi necessari nella nostra formazione.Da questa lettera non emerge altro che un risentimento profondo per un padre che non ha saputo capire il figlio, di un adulto mai cresciuto ed ancorato al proprio passato, che non ha fatto altro che trascorrere la sua vita facendo passare i giorni fuggendo. Per vivere, per affrontare la vita ci vuole coraggio. Ognuno di noi ha in sé un mondo che non lascia vedere a nessuno, delle ferite mai rimarginate, dei limiti che ci ostacolano. La differenza sta in chi ha il coraggio di guardare dentro di sé e avere la forza di affrontare tutto questo contando unicamente sulle proprie forze, e non dipendere mai da ciò che gli altri dicono o vorremmo che ci dicessero.Prima se stessi. Gli altri possono solo seguirci, se vogliono, ma non potranno mai modificarci o manipolarci a loro piacimento se non lo permettiamo. Amatevi se nessun altro sembra farlo, comprendetevi, asciugatevi le lacrime, rialzatevi da ogni caduta, ascoltate ogni commento o giudizio ma non interiorizzatelo se, in fondo, sapete che non corrisponde alla realtà.In ognuno di noi c'è un po' di questo sensibile e vulnerabile Kafka, ma siamo noi a decidere di non esserlo più.





VOTO: 8


lunedì 13 marzo 2017

Poesia: "Per vivere non voglio", Pedro Salinas

" Per vivere non voglio
isole, palazzi, torri.
Che altissima allegria:
vivere nei pronomi!
Getta via i vestiti, i connotati, i ritratti;
non ti voglio così,
travestita da altra,
figlia sempre di qualcosa.
Ti voglio libera, pura, irriducibile: tu.
Quando ti chiamerò, so bene, fra tutte le genti
del mondo, solo tu sarai tu.
E quando mi chiederai chi è che ti chiama,
che ti vede sua, sotterrerò i nomi,
le pergamene, la storia.
Comincerò a distruggere quanto m'hanno gettato addosso
da prima ancora ch'io nascessi.
E ritornato ormai all'eterno anonimato
del nudo, della pietra, del mondo, ti dirò:
« Io ti voglio, sono io. »